LEBRON JAMES
È probabilmente l’Episodio con “e” maiuscola dell’epopea targata Giovani Leggende, contenitore di basket ma anche di sogni per diverse generazioni di aspiranti professionisti. Ed è la storia di due ragazzi – uno italiano di Varese e uno americano di Akron, Ohio – che trascorsero insieme una settimana di aprile del lontano anno 2000 per giocare quello che allora si chiamava Memorial Sergio Rizzi, del tutto inconsapevoli del fatto che uno dei due sarebbe diventato il più forte giocatore di pallacanestro al mondo.
Il primo è niente meno che LeBron James, giunto a inizio secolo nella Città Giardino con i migliori prospetti della squadra di Team Ohio. Il secondo è Filippo Forni, colui che ospitò la giovanissima (non ancora) stella e che oggi ricorda bene quanto accadde.
Filippo, raccontaci un po’ cosa facevi in quel lontano 2000…
Avevo 17 anni, facevo parte di Borgomanero, dove ero allenato da Fabrizio Garbosi, e frequentavo il liceo scientifico Mericianum di Sesto Calende. Poco prima del torneo, durante il quarto anno di liceo, avevo avuto la fortuna di poter andare negli Stati Uniti per un periodo di interscambio culturale, giocando anche a basket e avendo così modo di conoscere la loro cultura sportiva, completamente diversa dalla nostra.
Cosa rappresentava per te il GLV? Cosa ricordi in particolare di quell’edizione?
Per noi il torneo era soprattutto un’ottima occasione di confronto con le squadre che avremmo poi dovuto affrontare nell’Interzona per accedere alle finali nazionali: non abbiamo certo partecipato con l’idea di vincerlo. E poi il Giovani Leggende (allora Memorial Rizzi, ndr) ci avrebbe dato anche la possibilità di metterci alla prova contro formazioni di altissimo livello, provenienti dall’Europa o dall’America.
Quando hai saputo che avresti dovuto ospitare un americano? Ti avevano detto qualcosa di quel LeBron?
Ricordo che il nostro coach, Fabrizio Garbosi, ci disse circa una settimana prima che eravamo stati assegnati per ospitare Team Ohio, ma io conobbi il mio effettivo ospite solamente il giorno stesso in cui arrivò. Quindi no, non sapevo proprio nulla di quel LeBron!
Come andò il tuo torneo e come andò il suo?
Noi eravamo una buona squadra, una delle migliori del Piemonte insieme al Cus Torino. Purtroppo, però, ci presentammo al torneo con tre giocatori infortunati… Il risultato finale, grazie a delle buone prestazioni da parte nostra, fu comunque soddisfacente. Per quanto riguarda LeBron, invece, ricordo di aver seguito tutte le sue partite, visto che poi lo dovevo riportare a casa. Team Ohio metteva in mostra un’ottima pallacanestro, frutto anche delle enormi differenze di intendere il basket e la sua preparazione che ci sono negli Usa rispetto a qui.
In che senso?
Innanzitutto negli Stati Uniti sono già molto selettivi a livello di High School, quindi esprimono compagini giovanili molto competitive. Se poi si pensa che Team Ohio rappresentava (e ancora oggi rappresenta) una selezione dei migliori dell’intero Stato in questione, beh… si capisce chi avevamo di fronte! La differenza, poi, si pesa soprattutto sul lato atletico, aspetto curato dai loro allenatori ben più che in Italia.
All’epoca LeBron aveva solo 15 anni: siete riusciti a percepire di avere di fronte un giocatore straordinario?
A dire il vero no, non ci diede minimamente questa impressione! I migliori di Team Ohio erano Chris Quinn, che ha poi giocato per diversi anni ai Miami Heat, e JJ Sullinger, apparentemente il più forte, che in seguito però ha sfondato solo nel campionato filippino… Pensai che entrambi avrebbero avuto un percorso in NBA significativo, non calcolando invece per nulla LeBron…
E fuori dal campo, in casa, come andarono le cose con lui?
LeBron era una persona molto riservata, non gli piaceva socializzare. Si chiudeva in camera e non potevi entrare, in più era molto difficile farlo mangiare insieme a noi. Vi racconto un aneddoto: una sera lo portammo a mangiare la pizza e lui ne ordinò una con peperoni. Io sapevo che in America, con la parola “peperoni”, indicano il salame piccante e così lo avvisai che avrebbe ricevuto una pizza con verdura. Lui però mi disse che non c’era problema, di non preoccuparmi, ma quando poi arrivò il piatto si mise a togliere tutti i peperoni, mangiandosi di fatto una margherita! Chi ha avuto modo di conoscerlo personalmente dice che sia tuttora una persona introversa, che tende a fidarsi poco delle persone al di fuori dei suoi cari, come i famigliari e l’amico-agente Rich Paul: questo è molto probabilmente una conseguenza di quanto ha vissuto durante la sua difficile infanzia.
Escludendo a questo punto che tu sia riuscito a mantenere un contatto diretto con lui, sei poi riuscito a seguire l’evoluzione della sua carriera? Dopo quanto tempo hai sentito parlare di nuovo di LeBron James?
In verità ho cercato di contattarlo in qualche modo dopo il suo ritorno negli USA, ma di fatto non l’ho più sentito… Poi però è stato scelto al Draft del 2003, entrando in NBA, e allora ho ricollegato tutto: il ragazzo che avevo ospitato aveva fatto molta strada!
Eccome se ne aveva fatta di strada quel ragazzino… Eppure in pochi lo avrebbero detto dopo averlo visto giocare sui parquet di Varese e provincia. E forse, a pensarci bene, questa straordinaria esperienza ci insegna proprio questo: nulla, ma proprio nulla, è già scritto della vita di ognuno di noi a 15 o 16 anni.
Per crescere c’è certamente bisogno di lavoro, di impegno e di dedizione, ma forse è anche necessario un singolo fatto, un’esperienza, un qualcosa che rappresenti una svolta, una scintilla. E chissà se per LeBron James, oggi idolo e modello per milioni di appassionati di questo sport, selezionato allora per la prima volta come prospetto del suo Stato, alla prima esperienza fuori dagli Stati Uniti e lontano da casa, la scintilla o la svolta non sia stata proprio quel Giovani Leggende giocato a Varese ventuno anni fa…